Progetto ricomposizione corporea (1 parte)

Generalmente, quando ci si immagina d’intraprendere un programma dietetico, le prime due cose che ci vengono in mente sono due: senso di fame e privazione. E statisticamente parlando, non ci si può certo dare torto.

Allo stesso tempo però, uscendo dal consueto preconcetto di dieta (pollo lesso, riso in bianco e pochi grassi, per intenderci), ci viene difficile pensare ad un regime alimentare davvero efficace per il dimagrimento. Ergo, il nostro cervello conosce una sola soluzione avente finalità lipolitica, ossia quella più frustrante.

Ma se il fare “dieta” significasse semplicemente saper pianificare? Se gli inquietanti tagli energetici fossero tuttavia “mascherati” da quella magica “stabilità” glicemica e dalla giusta intercorrenza tra un pasto e l’altro (in funzione ai tempi di svuotamento gastrico)? E se per ottenere tutto questo non si dovrà comunque rinunciare al gusto?

Allora non vi sentireste a dieta, e la “serenità” che ne potrà derivare si concreterà in maggior costanza. E come si sa, la costanza assieme all’organizzazione pagano sempre.

Negli ultimi anni si sono sentite le più svariate proposte in ambito nutrizionale, e come sempre non sono mancate le contraddizioni. Spesso il denominatore comune è proprio la totale mancanza di affinità tra il protocollo alimentare e la persona (con tutte le sue necessità ed abitudini). In sostanza si parte quasi sempre dalla dieta e non dal soggetto, senza considerare che nella sfera alimentare dilaga ancora un’altissima incompetenza.

Le più grandi controversie del giorno d’oggi, nascono niente di meno che da un’errata o comunque parziale interpretazione della biochimica degli alimenti. Volendo citare un esempio a caso, pensiamo alla relazione vigente tra i nutrienti e la risposta endocrina ad essi associata; sotto alcuni aspetti viene completamente ignorata, in altre occasioni viene deliberatamente enfatizzata. Esattamente come accade per la più popolare secrezione endogena, quella riguardante l’ormone insulina. Nulla di più sbagliato è collegare questa molecola unicamente ai processi lipogenici, senza considerare la sua reale funzione. 

È ormai popolare la relazione vigente tra insulina ed i livelli di glucosio nel sangue, quasi del tutto ignorato è il fatto che la ghiandola pancreatica non rimane in stato quiescente se non si mangiano carboidrati (indipendentemente dal loro Indice Glicemico), ma la secrezione d’insulina è una conseguenza all’ingestione di qualsivoglia alimento. Quindi una cosa è l’innalzamento della glicemia, un’altra cosa è l’indice insulinico dei cibi. E quest’ultimo può avvenire anche in assenza di alterazioni glicemiche, quindi anche dopo l’ingestione di alimenti prettamente proteici. Funzione dell’ormone insulina è di fatto quello di veicolare i nutrienti (tutti) nei tessuti insulino-dipendenti, ovvero il muscolo scheletrico, il muscolo cardiaco ed il tessuto adiposo.

Detto ciò è facile comprendere che l’aumento dell’adipe non è soltanto il risultato dell’opera dell’insulina, ma incontrerà solide origini altrove. Il mio riferimento va al mero bilancio energetico. Apparentemente banale, ma è così che vanno le cose.

Questo ovviamente non significa che si possa guardare con indifferenza alla biochimica di alimenti e macronutrienti, anzi. Considerare l’entità dei nutrimenti, la loro interazione, i processi digestivi e la risposta endocrina ad essi associata, rimane fondamentale per assicurare al corpo il giusto equilibrio in senso lato.

Gli studi accademici sono interessanti, ma come dico spesso vanno osservati con l’occhio di una conoscenza olistica, soprattutto pratica. In queste circostanze sarà bene saper guardare al così detto “quadro generale”, che è molto più ampio di quello che si possa immaginare.

Torniamo per esempio alla secrezione d’insulina, in particolare a quella causata dall’ingestione di carne o pesce (che si colloca tra i 50 ed i 60 punti percentuale rispetto a quella del comune pane bianco che viene posto a 100); sapete cosa succede quando sussiste rilascio d’insulina senza che si alzi al contempo la concentrazione di zuccheri nel sangue? Succederà che vedremo entrare in gioco anche gli ormoni “controinsulari”, come il glucagone, il cortisolo, il GH ecc, aventi una funzione diametralmente opposta a quella dell’insulina: alzare la glicemia. Possiamo quindi dire che in questo caso l’azione dell’insulina (comunque meno violenta di quella causata da un netto aumento della concentrazione di glucosio) sarà tenuta a “freno” dagli ormoni iperglicemizzanti, con il risultato finale di una maggior stabilità sulla glicemia stessa.

Ma quindi aveva ragione Berry Sears che nella dieta Zona spiegava come le proteine promuovessero il rilascio di glucagone? Sotto questo aspetto si, ma dovremmo tuttavia tenere conto che l’intento di modulare la risposta insulinica con la combinazione di alimenti glucidici e proteici nello stesso pasto, sarà comunque destinata a fallire. Di fatto in presenza di pasti misti si avrà una secrezione d’insulina sempre maggiore (Nimptsch et al, 2011).

Ancora una volta la differenza sarà osservabile nell’innalzamento della curva glicemica: sempre più moderata rispetto all’ingestione di soli carboidrati dato che come avevo detto pocanzi, la scomparsa di glucosio dal sangue in assenza di un suo efficacie aumento, saprà come modulare l’innalzamento della curva glicemica del pasto, abbattendo così l’indice glicemico dello stesso.

In questa maniera l’effetto che ne potrà derivare sarà quello di prolungare il senso di sazietà, anche per via del maggior ritardo nei tempi di svuotamento gastrico. Questo significherà il saper gestire con più facilità un taglio energetico, il vero responsabile del dimagrimento.

A questo punto del discorso potrebbe sorgere un dubbio: ma non era soprattutto l’azione dell’insulina a farci ingrassare? Certo che si, ma soltanto se viene secreta in presenza di un sostanziale e prolungato aumento della concentrazione di glucosio nel plasma, o comunque in presenza di elevati introiti energetici. Esattamente come avviene dopo l’ingestione di un pasto molto ricco di glucidi e/o comunque molto calorico. Da questa semplice considerazione possiamo giungere con estrema facilità al concetto di carico glicemico (indice glicemico x quantità di carboidrati / 100), e quindi alla sua diretta relazione con i processi lipogenici. Si potrà dunque sintetizzare che carico glicemico + bilancio calorico positivo = aumento del grasso corporeo.

Sarà dunque immediato giungere alla conclusione più scontata: togliamo i carboidrati, riduciamo le calorie ed avremo risolto il problema.

E non possiamo nemmeno darci torto, del resto pratiche di questo genere funzionano, e la notorietà delle diete low carb ne è la riprova. Quello che però non si tiene in considerazione, è che la riduzione delle calorie in entrata non potrà mai rappresentare una soluzione sul lungo termine, poiché lo stesso dispendio energetico (a partire dal metabolismo basale) risulterà essere strettamente influenzato dal contributo della dieta. Ciò significa che se noi introduciamo 1.000 calorie al giorno, prima o poi finiremo per “bruciarne” altrettante, dunque creando parità di bilancio; in parole semplici, nonostante le “poche” calorie, non riscontreremo alcun calo della massa adiposa.

A tutti gli effetti, il giochino del taglio (sia calorico che macronutrizionale) funzionerà fin tanto che sussisterà l’effetto “sorpresa”, poi farà seguito l’adattamento. Ma il brutto arriverà quando l’inatteso “stallo metabolico” si farà pure beffe dei nostri sacrifici, e lo farà nel momento stesso in cui ci esporremo nuovamente all’alimento glucidico come pure all’aumento delle calorie (e vi assicuro che succederà): riprenderemo tutto quello che avevamo perso e con gli interessi.

Certo si sa che nei programmi dietetici sapientemente strutturati, dopo prolungati tagli glucidici ne sarà previsto un graduale reintegro, ma soffermiamoci per un momento su quei fattori che ci portano a ridurre l’attività metabolica inficiando così sulla nostra capacità lipolitica e quindi ossidativa; il mio riferimento va all’ormone leptina (che a breve approfondiremo), il cui calo determinerà ripercussioni sia sugli ormoni tiroidei che gonadici.

A questa relazione, già di per sé sufficientemente chiara, aggiungiamoci anche che il protrarsi di diete low-carb, oltre ad alimentare inutili fenomeni proteolitici (gluconeogenesi a partire dagli aminoacidi, e relativa sovra-produzione di scorie azotate) per effetto del drastico calo delle scorte di glicogeno muscolare ed epatico, significherà anche una sottoregolazione dell’enzima deiodinasi, abilitato alla conversione di T4 (ormone tiroideo poco attivo) in T3 (molto più attivo). Ma non è ancora finita.

Ridurre i carboidrati nella dieta sarà anche motivo d’ostacolo nei confronti dei processi di crescita muscolare. A tale proposito ricordiamo come i carboidrati siano il carburante preferenziale per sostenere il costo della sintesi proteica (a parità di ossigeno sprigionano più calorie), ed il fatto che la cellula sia più ricca di glicogeno indicherà uno stato energetico ottimale per garantire l’espressione di M-tor piuttosto che AMPK alfa 1 (due molecole non a caso inversamente proporzionali).

Ma quindi come poter istituire un piano nutrizionale con finalità ipertrofica senza aumentare eccessivamente il volume dei nostri adipociti (tipo effetto collaterale della fase di bulk)?

Lavorando sulla sensibilità insulinica.

Innanzitutto è bene sapere che la condizione opposta a quella di una buona sensibilità insulinica, rimane ovviamente l’inquietante insulino-resistenza. Volendo semplificarne il concetto, vi basti pensare che in tale circostanza si vedrà necessaria una maggior produzione d’insulina finalizzata a forzare l’ingresso del glucosio nelle cellule, le quali, prevedibilmente, si mostreranno meno sensibili alla sua azione.

Ora, nonostante l’insulino-resistenza fisiologica (allorché si riducano sul breve-medio termine i livelli di glucosio) possa condurre ad interessanti situazioni di risparmio proteico (protein-sparing effect), andrà sempre considerato come tale fenomeno si associ all’inevitabile calo dello stesso dispendio metabolico, e sul cronico, al pari di un protratto eccesso di zuccheri (alimentazione iperglucidica), potrebbe comunque condurre ad insulino resistenza patologica (diabete di tipo II).

Pare quindi evidente che i carboidrati ci servono, ma occorrerà saperli gestire secondo fisiologia, ergo guardando alla “condizione” metabolica e quindi alla nostra maggiore o minore sensibilità insulinica. I casi in cui tale fenomeno si verifica possono essere essenzialmente quattro:

  1. dopo un periodo di digiuno non molto prolungato (max 20 h, vedi intermittent fasting)
  2. dopo almeno 24 h di restrizione sia glucidica che lipidica
  3. dopo qualche giorno di lieve deficit calorico
  4. dopo un allenamento anaerobico di tipo depletivo (resistance training)

Escludendo in questa sede la pratica del digiuno, il cui utilizzo rimane periodicamente utile per avviare processi di autofagia e relativo ricambio cellulare, sarà interessante notare come la restrizione glucidico-lipidica si confermi come quella strategia nutrizionale atta a migliorare in modo netto l’espressione recettoriale delle cellule muscolari: da un lato perché ridurre il glucosio in circolo sul breve-medio termine porta a questo fenomeno in modo del tutto spontaneo (poi vedremo per quale motivo), dall’altro perché riducendo la lipemia (che, ricordiamo, registra il proprio picco a distanza di qualche ora dall’ingestione di grassi) si limita uno stato infiammatorio che condurrebbe comunque ad insulino-resistenza.

A prescindere dalle necessità di protocollo, il motivo per cui il taglio glucidico non possa essere protratto a lungo (oltre le 36-48 ore), ci rimanda inequivocabilmente al fenomeno opposto, ossia alla riduzione della stessa espressione recettoriale per effetto della consueta “up-down regulation recettoriale”.
In parole semplici l’insulino resistenza altro non è che una maggior refrattarietà delle cellule insulino-dipendenti all’azione della stessa insulina, poiché calando il numero di recettori di membrana, si riscontrerà la necessità di produrre maggiori quantità del suddetto ormone.

Volendo scendere ancor più nel dettaglio, se ad un primo calo del glucosio circolante si andrà riscontrando un aumento dell’attività recettoriale al fine di massimizzarne la captazione, ecco che da una condizione conservativa la cellula inizierà a preferire altri substrati energetici (come acidi grassi, corpi chetonici, ecc.), e pertanto verrà ridotta la stessa espressione recettoriale. Questa è appunto definita insulino-resistenza fisiologica, e si deve distinguere da quella patologica che vedrà associata una ridotta espressione recettoriale anche in concomitanza ad uno stato glicemico elevato. 

Ultimo anche se non per ordine d’importanza, sempre al fine di accrescere la sensibilità insulinica incontriamo il resistance training. Perché tale tipologia di allenamento risulti sufficientemente stimolante, occorrerà che la seduta registri non solo determinate intensità (di carico e di lavoro), ma anche sufficiente volume.

In quest’occasione saranno sfruttati al meglio gli effetti delle proteine chinasi, in particolar modo dall’AMPK alfa 2, la cui attivazione sarà modulata dal tasso di turnover di ATP della cellula muscolare (quindi, tanto maggiore sarà la spesa energetica dell’esercizio, tanto più attiva sarà questa molecola), e che a differenza dell’isoforma “alfa 1” non ostacolerà M-tor.

Anche l’impiego di tecniche incrociate, come la restrizione energetica nelle ore che precedono l’allenamento, potrà potenziare l’espressione di alfa 2, ma a patto che non venga protratta a lungo o che venga comunque modulata in virtù delle caratteristiche del soggetto. A tal proposito ricordiamoci della proporzionalità vigente tra AMPK e adiponectina (a sua volta inversamente proporzionale ai livelli di grasso corporeo), e quindi della minor capacità del soggetto più “magro” (generalmente hard gainer) nell’avviare significativi processi di crescita in presenza di scarsi introiti proteici.

Soggettività a parte, si tenga conto che l’aumento dell’espressione recettoriale della cellula, significhi sostanzialmente la traslocazione dei trasportatori glucidici (GLUT4) dal citoplasma alla membrana cellulare, permettendo così l’ingresso di glucosio nella cellula stessa (vedi disegno sotto). A questo punto, essendo il processo di ripristino del glicogeno il primo ad iniziare nonché a concludersi (24-36 h), la fase di “refeed” post WO dovrà sempre garantire tutti gli elementi utili per ottimizzarne il recupero, e quindi sostenere la successiva sintesi proteica. In pratica trattasi dell’unico “momento metabolico” in cui la formula carico glicemico + bilancio calorico positivo, non restituirà lipogenesi.

Quanto possa durare questa condizione (generalmente conosciuta come “finestra anabolica”), dipenderà ovviamente da come ci si è allenati.

Tutto chiaro, ma allora quand’è che si perde adipe? lo scopriremo nella seconda parte.

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