Nei precedenti episodi si è parlato di carichi, prestazione, velocità d’esecuzione, recuperi during e post work-out… oltre alle canoniche serie e ripetizioni, che abbiamo già scoperto corrispondere a tutto e niente senza la conoscenza di tutte le altre importanti variabili discusse, rimane ancora vago il concetto di “corretto esercizio”. Già, proprio quell’elemento che starebbe alla base di tutto questo sofisticato discorso, quel fattore che se difettoso di precise caratteristiche, saprà come gettare un’ombra di precarietà sulla più meticolosa organizzazione di tutti i nostri parametri.
Scopo di quest’ultima parte dell’articolo, sarà proprio quello di tracciare un’insieme di regole indispensabili per uniformare la “resa” dell’esercizio, la cui “mission” sarà quella di eliminare ogni forma di libera interpretazione del gesto.
Ora, partiamo dal presupposto che tutti voi stiate personalizzando a piacimento la forma esecutiva dei vostri esercizi: fin tanto che riusciremo a diagnosticare tale attitudine, non si potrà parlare di stimolo paritario tra due o più soggetti, e questo, tengo a precisarlo, nemmeno a corrispondenza dei principali parametri, quali intensità di carico, di sforzo densità e volume. Rimarrebbe arbitrale sia il dirottamento dello stimolo, che il rapporto generato tra stress meccanico e metabolico.
Benché quest’ultimo sia governabile anche per mezzo di un ragionato “smistamento” dei tempi di tensione (e più avanti vedremo come), direzione e continuità della tensione appariranno comunque determinanti, sia per proprio conto, che per una migliore relazione tra ogni altra variabile osservata. Volendo cadere in una banalità esemplare, vi posso garantire che l’incapacità di reclutare efficacemente il muscolo pettorale all’interno di un movimento composto come la panca piana, a prescindere dal protocollo seguito, vi porterà comunque ad ottenere una sua scarsa stimolazione; il motivo di ciò non sarà soltanto dovuto alla ripartizione del carico sull’intera catena cinetica
(strutture passive comprese), ma anche e soprattutto dalla totale assenza d’isotonia sul principale agonista, il quale ovviamente, non ricevendo una stimolazione adeguata, non risponderà come dovrebbe.
Prima di applicare qualsiasi “formula” d’allenamento, bisognerà iniziare a porsi la seguente domanda: quale muscolo o quale area dello stesso intendo reclutare con l’esercizio intrapreso? Nel bodybuilding, propriocettività ed osservazione, nel corso dei decenni hanno saputo cernere una vasta gamma di movimenti che, sorvolando ora sulle nostre soggettive preferenze (indubbiamente alimentate dalle nostre stesse attitudini), scopriremo essere suddivisi in categorie e sottocategorie. Il mio riferimento va ai così detti “big” (quali squat, stacco e panca), tutti gli esercizi comunemente definiti basilari (nonché multi-articolari), quelli d’isolamento (generalmente mono-articolari) e tutti i relativi complementari. In un prossimo articolo porterò chiara descrizione di alcune caratteristiche d’imprescindibile occorrenza nel “movimento ipertrofico”, proprietà che per ora preferisco annoverare in modo più sintetico:
- la capacità di godere di curve di forza massime in posizione eccentrica
- in alcuni casi prestiramento del principale agonista (o di un’area dello stesso)
- caratteristiche d’assetto meccanico-posturali adeguate a garantire la giusta stabilità anche sotto l’impiego di carichi e/o intensità di carico elevate
Tutti elementi perfettamente identificabili nei più comuni esercizi base nonché nei tre big per eccellenza, che tuttavia, come precedentemente osservato, NON sempre vengono impiegati in modo davvero corretto. La necessità di estendere ulteriormente la seduta dopo l’impiego dei consueti basilari (e relativi complementari), ne conferisce quotidiana dimostrazione. D’altro canto, a convalidare l’innesco del processo ipertrofico, un ruolo di spiccato interesse lo avrà anche l’incremento della pressione osmolare (flushing) nel muscolo, e questo il bodybuilder lo sa. Ecco perché ogni frequentatore della sala pesi è solito concludere con esercizi d’isolamento.
Si ottiene così il “comune” training ipertrofico, dove con i “grandi” carichi dei movimenti base si determina “reclutamento” e “danno” (ammesso e concesso il giusto “ingaggio” dell’area bersaglio), con quelli d’isolamento si confermano deplezione energetica e congestione, ed il “volume” infine rimedia a tutte le eventuali aspecificità del caso. Se nel primo episodio ho parlato di “lavoro dentro le serie”, il percorso individuato in questo “comune” modus operandi appare un po’ come l’esatto contrario di quello che intendevo dire. È pertanto evidente che se in un work-out volessimo coronare tale concetto, avremo sicuramente bisogno di soddisfare qualche nuovo requisito:
- impiegare un carico che dovrà sempre essere in grado di reclutare il maggior numero di unità motorie (>70%), ma al contempo non essere troppo elevato da pregiudicare sia stile esecutivo che adeguati TUT complessivi (20 ~ 40’’, in funzione all’esercizio ed alla tipologia del training, un parametro comunque periodizzabile)
- assicurare un livello di tensione più continuo possibile (total range tension, TRT) sull’intero ROM del solo muscolo target, con una particolare attenzione alla porzione eccentrica della stessa area bersaglio (e più avanti vedremo come)
- utilizzo di una velocità di contrazione e decontrazione che, in relazione alla biomeccanica dell’esercizio, permetterà di realizzare il punto 2
- modulare la variabile “recupero tra le serie” in funzione alla maggiore o minore intensità di sforzo (intesa come reps fatte vs reps fattibili)
- servirsi unicamente di esercizi capaci di conferire la massima stabilità, dando priorità a tutti quelli di natura MULTI ARTICOLARE
Se quanto suggerito all’ultimo punto può apparire in contrasto con tutto ciò che abbiamo precedentemente osservato, prima di spiegarvi come e perché, vi invito a focalizzare questo importante aspetto: l’esercizio multi articolare, oltre che essere quasi sempre in grado di generare tensione apicale in posizione eccentrica del principale agonista (accrescendo così la possibilità di promuovere l’entità del danno), sarà l’unico in grado di restituire una distribuzione delle forze atta a garantire il giusto grado di coaptazione articolare su tutto il ROM; ergo si mostrerà più sicuro nonché più idoneo sia alla conservazione del set-up, che all’impiego di “elevate” intensità di carico. Per questi “semplici” motivi, il nostro work-out DOVRA’ essere costituito quasi interamente da esercizi fondamentali.
Va bene, ma come soddisfare il punto 2 in un movimento composto? Del resto macchine ed esercizi d’isolamento si impiegano proprio per colmare questo “difetto”…
Obiezione lecita, ma l’abilità del bodybuilder più accorto dovrebbe essere proprio quella di saper governare tutti i parametri a disposizione in virtù dei propri obiettivi, e la “selettività” rientra tra questi. Avete capito bene, sto parlando d’ “isolamento” (sottolineo le virgolette) nel movimento pluriarticolare, fenomeno che adesso cercheremo di meglio comprendere.
Nel secondo episodio di questo post, mi ero ripromesso di esaminare più a fondo il tema distribuzione del TUT dentro e/o tra le fasi; oltre alla biomeccanica del gesto, questo si mostrerà l’elemento chiave su cui dover agire.
Non occorrerà una laurea in ingegneria per comprendere le più superficiali relazioni meccaniche tra carico e leve corporee; non sarà perciò difficile individuare quelle porzioni di movimento capaci di dirottare la nostra R sulla struttura scheletrica, legamentosa e/o su apparati accessori.
Per raggirare il “problema”, il mio suggerimento non sarà quello di parzializzare il movimento scavalcando machiavellicamente certe aree del ROM, ma sarà piuttosto quello di modulare la velocità d’esecuzione (in questo caso aumentandola) laddove la tensione non gravi sul principale agonista; contrariamente la velocità sarà gradualmente ridotta (dilatando quindi i TUT) in quei
“settori” del movimento dove la tensione sull’area target è massimizzata; a tal proposito avremo modo di individuare almeno due aree distinte del ROM, che nella fattispecie ho battezzato con il nome di Mezzeria Prossimale e Mezzeria Distale del movimento.
A coordinare il tutto dovrà essere adottata una “geometria” sempre in grado di generare determinate angolazioni tra vettore di carico e segmenti ossei “pilotati” dal principale agonista, la cui necessità d’assetto, se osservate nel più scrupoloso dettaglio biomeccanico, inizieranno a dettare regole che potremmo definire in tutta certezza anti-economiche e quindi poco “funzionali”.
Seguendo questo (tutt’altro che istintivo) approccio, non solo saranno “esonerati” dall’opera tutti i sinergici minoritari, ma il nostro apparato bersaglio si troverà sotto tensione per l’intera durata della serie, scartando quindi la probabilità d’innescare differenti condizioni per effetto di schemi motori ed assetti altamente soggettivi (vedi impiego del lockout, contrazioni pliometriche, ROM parziali, cheating ecc.).
Seguendo questi sofisticati accorgimenti potremo anche assistere ad un pressoché continuo processo depletivo dei fosfageni (fenomeno altrimenti assai raro da potersi diagnosticare), accompagnato parallelamente da un blocco del flusso plasmatico in tutto il fascio di fibrocellule sottoposte a TRT; a questo punto la lunghezza complessiva del TUT (volontariamente e/o tecnicamente modulabile) con l’impiego della giusta intensità di carico, ci permetterà di sancire pure l’entità del processo ipertrofico desiderato: miofibrillare o sarcoplasmatico, rispettivamente stimolati da bassi ed alti tempi di tensione e relativi carichi.
La distribuzione del TUT tra le fasi (non dentro), ci consentirà infine di regolare il rapporto vigente tra stress meccanico e metabolico, considerato che esiste un rapporto di circa 1:3 in termini di dispendio di ATP tra fase eccentrica e concentrica (Eur J Appl Physiol. 2009 Jul;106(5):731-9). Vogliamo pertanto aumentare lo stress meccanico riducendo al contempo il dispendio energetico e quindi la sintesi di lattato? Orienteremo la maggior parte del TUT sulle fasi negative.
Vogliamo aumentare lo stress metabolico? Ridurremo il TUT sulle fasi eccentriche, dando più importanza alle concentriche. Vogliamo equalizzare la risposta? Assegneremo pari durata alle fasi. Cosa scegliere dipende ovviamente dall’obiettivo, dal carico selezionato e dagli schemi di periodizzazione, tutti dettagli che avrò modo di approfondire in un futuro articolo dedicato al processo ipertrofico ed iperplasico.
In questo terzo ed ultimo episodio ho cercato di portarvi a conoscenza di dettagli statisticamente trascurati, ma se pensate siano di facoltativo impiego, siete fuori strada. Nella realtà dei fatti tutti voi, con il vostro allenamento, in un modo o nell’altro state già miscelando e modulando i diversi parametri che ho esposto. Il punto è che lo fate inconsapevolmente, ignorando quindi l’opportunità di controllare con criterio ogni sfumatura del vostro workout, e con esso il suo esito. Sia chiaro che non per questo non è che non potrete ottenere risultati, anzi la conquista del “successo” è raggiungibile con tutte le forme d’allenamento esistenti purché esista volontà e costanza.
Ma le domande sono: avremmo potuto impiegare meno tempo? E soprattutto, potremmo replicare quanto abbiamo fatto su di noi, su qualcun’altro? (quesito che si dovrebbe porre il professionista di turno).
Una celebre frase di Dorian Yates vi farà riflettere: “fate tutto quello che ho fatto io, ma non diventerete mai come me”.
Letto questo articolo, ed assimilate le molteplici varianti esistenti del gesto, possiamo capire perché.
Buon “3 x 8” a tutti…